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Uomini senza donne (Haruki Murakami), una specie di recensione | A cura di: MS

Ho letto “Uomini senza donne“, di Haruki Murakami. È una raccolta di sette racconti sul tema dell’amore e del perdere l’amore.

Ho qui raccolto alcuni passaggi del libro che mi sono piaciuti, intervallandoli con considerazioni, spunti, echi d’altro. Questa non è una recensione e non ha alcuna pretesa di esaustività. Spero comunque sia una cosa simpatica, e che vi faccia venire voglia di leggere “Uomini senza donne”.

Il titolo dei racconti è, in quest’ordine: “Drive my car”, “Yesterday”, “Organo indipendente”, “Shahrazād”, “Kino”, “Samsa innamorato”, “Uomini senza donne”.

Uomini senza donne, donne senza uomini
(a cura di: MS)

Uomini senza donne, di Haruki Murakami, una specie di recensione a cura di MS

Drive my car

La moglie di Kafuku è morta. E per di più gli hanno tolto la patente, perché guidava ubriaco (bravo stronzo). Così Kafuku assume un’autista, Misaki, che lo scorrazzi in giro; se lo può permettere. Misaki guida benissimo, altroché. Tra i due si crea un legame speciale, mentre Kafuku elabora il lutto.

A differenza degli amanti della moglie, Kafuku l’ha seguita nella malattia fino all’ultimo.

Kafuku aveva visto sua moglie consumarsi giorno dopo giorno, al crematorio aveva raccolto ciò che restava di lei.

Già era morta mentre moriva: quelle ceneri ne erano solo la prova definitiva.

– In conclusione, però, l’ho persa, – disse infine. – L’ho persa poco per volta mentre era ancora in vita, e poi del tutto. Come se venisse lentamente erosa, finché è stata trascinata via, con tutte le radici, da una grande onda. Capisce cosa voglio dire?
[…]
– La cosa più dolorosa, per me, – proseguì, – è che non sono riuscito a capirla, o perlomeno a capire una parte importante di lei. E adesso che è morta, so che probabilmente non la capirò mai, e me ne andrò così. Lasciando un piccolo scrigno sepolto in fondo al mare. A questo pensiero, mi si stringe il cuore.

Quanti i non-detti e le incomprensioni con le persone che non ci sono più. Rodersi le budella non serve a niente: eppure si deve. Almeno per un po’.

Poi ci sono questi dialoghi, che pare a volte di leggere una poesia di Patrizia Cavalli.

– Senta, è da un bel po’ che voglio dirglielo: a guardarla bene, lei è piuttosto carina. Non è affatto brutta.
– La ringrazio. Neanch’io penso di essere brutta. Semplicemente non sono bella.

E la gelosia. Che terribile sentimento, la gelosia! Parte da un’emozione che ribalta le budella. Nessun uomo sano di mente vorrebbe dover essere geloso. Eppure. Che ci fai? L’importante è non essere stronzi, e cercare intanto di non morirci troppo.

– Vendicarmi? No, non è esatto, – disse Kafuku. – Ma non riuscivo a dimenticare. Mi sforzavo, mi sforzavo davvero, di non pensarci più. Non serviva a nulla! Vedevo sempre mia moglie nelle braccia di lui. Una visione che tornava di continuo, come un fantasma che non trova pace e resta attaccato a un angolo del soffitto, a controllare quello che succede in basso… Dopo che mia moglie è morta, mi dicevo che col tempo questa sensazione mi avrebbe finalmente abbandonato. Invece no, era sempre presente. Anzi, era più forte e vivida di prima. Avevo bisogno di liberarmene. E a questo scopo dovevo sciogliere qualcosa dentro di me, qualcosa che somigliava tanto alla collera.

Ma possiamo provare a sopravvivere.

– È un tipo un tipo di comportamento per così dire patologico, signor Kafuku. Non è qualcosa che si possa controllare razionalmente. Anche mio padre che ci ha lasciate, e mia madre che mi trattava male, lo hanno fatto perché erano squilibrati. Arrovellarsi su cose del genere non serve a niente. Tutto quel che possiamo fare è cercare di sopravvivere, mandare giù e andare avanti.

Già. Dopotutto, è quel che abbiamo sempre fatto.

 

Yesterday

Spero davvero che a Denver, o in qualche altra città in capo al mondo, Kitaru conduca una vita felice. O se non proprio una vita felice, se è chiedere troppo, gli auguro perlomeno di passare questa giornata bene, senza problemi. Nessuno può sapere cosa sogneremo domani.

 

Organo indipendente

Ci sono persone che, pur essendo prive di particolari tortuosità e inquietudini, riescono a complicarsi la vita in maniera sorprendente. Non sono moltissime, ma a volte se ne incontrano. Il dottor Tokai era una di queste.

Che bel personaggio il dottor Tokai, eroico, titanico. Amante instancabile di decine di donne che ama tutte alla stessa maniera: cioè non amandole, lui, che l’amore vero non l’ha mai conosciuto.

Era sua convinzione personale che ogni donna nascesse dotata di un organo speciale, un organo per così dire indipendente, che le permetteva di dire bugie.

Come farebbero, se no, a nascondere con tanta disinvoltura ai propri mariti o fidanzati la relazione segreta con il dottor Tokai? Siamo dotati (non solo le donne) di organi segreti e indipendenti che entrano in funzione solo quando davvero ce n’è il bisogno. Nel silenzio agiscono, mentre noi possiamo far finta che niente. Ci dicono di mentire, di scappare, urlano di cambiare.

Se nel nostro operato non intervenisse un organo che ci spinge ad altezze vertiginose o ci fa precipitare storditi in fondo al baratro, un organo che a volte ci mostra splendide visioni, a volte ci induce a cercare la morte, la nostra vita sarebbe una cosa ben squallida. Si ridurrebbe a una serie di abitudini.

L’organo indipendente del dottor Tokai lo spinge all’amore e alla morte, che sono poi la stessa cosa, ed è dolce, terribile e inevitabile il suo lasciarcisi andare.

 

Shahrazād

“Shahrazād” è una rilettura della cornice narrativa de “Le mille e una notte” che mette al centro l’esperienza dell’uomo (Habara) incantato dal modo di raccontare della donna. Un racconto simpatico.

E quando lei fosse andata via, Habara non avrebbe più potuto sentirla raccontare. La narrazione si sarebbe interrotta e tante altre storie nuove sarebbero rimaste per sempre inascoltate. Oppure gli sarebbe stata tolta ogni libertà, col risultato che avrebbe perso non solo Shahrazād ma tutte le donne. La probabilità che accadesse era alta. In tal caso, non avrebbe mai più potuto penetrare in fondo al loro corpo umido. Mai più avrebbe potuto sentirle vibrare leggermente. Ma la prospettiva davvero insopportabile per lui, più che la preclusione dell’atto sessuale in sé, era di non poter più passare insieme a loro momenti di intimità. Perdere le donne in conclusione significava proprio questo. Perché le donne offrivano un tempo speciale che annullava la realtà, pur restandovi immerse.

 

Kino

Kino. Ha beccato la moglie che lo tradiva con un collega di lavoro. Si sono lasciati. Kino l’ha presa con relativa filosofia. Ha aperto un bar di atmosfera tranquilla e musica jazz. Si fa anche adottare da un gatto – che subito mi ricorda Minna la siamese di Elsa Morante.

Kino a quel gatto si era affezionato. Gli dava da mangiare, gli aveva preparato una cuccia, e cercava di disturbarlo il meno possibile. Anche il gatto sembrava legato a lui, e per essere gentile, o per non mostrarsi ostile, lo ricompensava con la sua presenza.

Insomma, Kino prova a rifarsi una vita. E va anche abbastanza bene. Ma qualcosa non torna.

Lei non è il genere di persona che fa intenzionalmente qualcosa di scorretto. Questo lo so bene. Ma a questo mondo astenersi dal far male non sempre basta. Ci sono persone che credono di cavarsela evitando di agire. Mi capisce?

Non sempre basta. Non sempre girare la testa dall’altra parte è sufficiente. A volte sì, funziona, davanti alle cose che fanno paura. E visto che ci fanno paura, si spera che funzioni per sempre. Solo che certe voci reclamano di uscire, propagarsi nell’aria, farsi urlo, pianto, tracollo. Kino aveva scelto di non piangere.

Invece di soffrire veramente, aveva represso le sensazioni essenziali. Aveva evitato di affrontare di petto la realtà per risparmiarsi un grave dolore, col risultato che si era svuotato di ogni capacità di provare sentimenti. Così i serpenti si erano impossessati di quella cavità e avevano cercato di nascondere lì il loro gelido cuore.

Ma arrendersi alla verità, arrendersi al dolore, è l’inizio della guarigione.

Sì, sono stato ferito, e molto profondamente, disse Kino rivolto a se stesso. E così le lacrime arrivarono. In quella piccola stanza buia.

 

Samsa innamorato

Gregor Samsa è il personaggio di kafkiano protagonista del celebre racconto “La metamorfosi”. Egli si sveglia una mattina e scopre di essersi trasformato in un gigantesco scarafaggio.

In “Samsa innamorato” Murakami si diverte a invertire la maledizione. Dall’incipit:

Quando si svegliò, nel letto, si accorse di essere diventato Gregor Samsa. Era supino e guardava il soffitto. Gli ci volle un po’ di tempo per abituarsi alla penombra della stanza. Il soffitto non aveva niente di speciale. In origine doveva essere bianco o crema, ma negli anni polvere e sporcizia l’avevano fatto diventare color latte cagliato. Non aveva decorazioni o altre caratteristiche visibili. Né pretese, né messaggi. Svolgeva senza problemi il suo ruolo strutturale di soffitto, e non pareva aspirare ad altro.

Lo scarafaggio mutato in umano scopre quanto sia disfunzionale, inadatto alla sopravvivenza, il corpo umano. Non era meglio trasformarsi in pesce, o girasole? Salvo poi scoprire l’amore. E ovviamente dire: ah, ecco.

Leggendo, si respira l’atmosfera post-apocalittica e post-mutazione che riveste ogni cosa in “Cecità” di José Saramago. Ed è sempre molto bellino.

 

Uomini senza donne

Uomini senza donne, donne senza uomini. Soggetto e oggetto del titolo possono ben essere intercambiati. Solo che l’autore è uomo e gli piacciono le donne, e ce lo teniamo così. Lo dico perché in questo racconto, e forse in tutta la raccolta, i termini in contraddizione non sono uomo/donna, ma amante/amata. Comunque.

In questo racconto Murakami tocca picchi di poeticità mica male.

Avevo quattordici anni, ero sano e in forma come un pesce appena nato, e ogni volta che soffiava un vento caldo da ovest avevo un’erezione.

Il lettore di sesso maschile ripenserà all’interrogazione di matematica alle medie con pantaloni della tuta e insensata erezione da celare con improbabili mani nelle tasche o messe a conchetta davanti al bacino alla maniera dei buttafuori.

Il racconto inizia con Emu che s’è suicidata, tanti, tantissimi anni dopo l’amore consumato con il protagonista sui banchi di scuola. E già da tempo s’erano persi.

Peccato che in seguito, chissà quando, Emu sia scomparsa. Non la vedevo più, dov’era finita? Appena avevo distolto per un attimo lo sguardo, qualcosa me l’aveva portata via. Fino a poco prima era lì, e a un certo punto mi sono accorto che non c’era più.

In quelle aule si conosceva anche noi una Emu, maschio o femmina che fosse. E a un certo punto non c’era più. Ma non si smetteva mai d’amarla, no? E che ricerca straziante, delle sue tracce in ogni amore, negli anni a venire.

Paradossalmente, da allora Emu ha continuato a vivere ovunque. La vedevo ovunque. Era presente in molti luoghi, era compresa in molte dimensioni temporali, in molte persone.

E ancora:

Ho cercato di procurarmi a poco a poco dei frammenti di lei prendendoli da gente e da posti diversi. Ma naturalmente erano soltanto dei frammenti. Per quanti ne mettessi insieme, tali restavano.

Oltre al limite del ragionevole. Da qualche parte rimane, permane, quel quattordicenne di allora.

Naturalmente a quel punto io non ero più un adolescente. Ero diventato molto più forte e abbronzato. Avevo la barba più folta e sapevo distinguere una metafora da una similitudine.

Quanto ho sofferto? Quanto dolore ho sentito in petto? Sarebbe bello che a questo mondo esistesse uno strumento per misurare in modo semplice e preciso la sofferenza. Così si potrebbe poi quantificarla in cifre e segnare il numero da qualche parte. E se quello strumento lo si potesse tenere sul palmo della mano, sarebbe perfetto. Ci penso ogni volta che regolo la pressione delle gomme.

A volte la morte è l’unico evento che ci può ridestare dal torpore perenne di un amore finito-infinito. Penso alla mia adolescenza. I tempi del campeggio sono finiti quando Daniele è morto, dieci anni dopo. A Elena è stato meglio non scrivere perché già aspettava il secondo figlio, e io che ne sapevo, e tante care cose a voi che vi siete permessi di andare avanti (morte, amore) mentre io stavo indietro a cercarvi.

La morte, cui riconosciamo una certa autorevolezza nel decidere quando una cosa è finita, ci desta sempre da quel sogno d’eterno passato.

Insieme a lei, ho la sensazione di aver perso per sempre il me stesso quattordicenne.

La morte, o l’amore. Come in “C’eravamo tanto amati”, di Ettore Scola.

 

 

E la vita cambia per sempre, diventi un uomo senza una donna, o una donna senza un uomo.

Un giorno all’improvviso diventi uno dei tanti uomini che non hanno una donna. Quel giorno viene di colpo a farti visita senza che tu ne abbia il minimo presentimento, senza il minimo preavviso, senza annunciarsi bussando o schiarendosi la gola.

[…]

È facilissimo diventare «uomini senza donne». Basta che tu ami profondamente una donna, e lei a un certo punto se ne vada.

 

“Uomini senza donne” (Racconti), in conclusione

Be’, è un bel libro.

Compratelo, regalatelo.

Murakami è un bravo ragazzo.

Potete acquistarlo qui.

 


Articolo di: MS